
Amore
“Non mi dire più niente, ti prego” fece lei a un tratto. “Stringimi forte forte. Anzi facciamo all’amore.”
“Si, certo, andiamo subito a casa.”
“No, niente casa.”
“Ma, come?”
”Qui.”
“Subito?”
“Subito.”
“In pieno giorno?”
“In pieno giorno.”
”Non hai vergogna?”
”No. Non ho vergogna perché fare all’amore non è vergogna. Vergogna è trucidare gli innocenti, come hanno fatto quelle facce di merda dei tedeschi.”
Ci pensai un poco, poi conclusi che Giuditta aveva sacrosanta ragione. E sono rimasto del suo parere anche oggi. Anche oggi io sostengo che fare all’amore non è vergogna. Non è vergogna. Vergogna è uccidere, vergogna è sudare, vergogna è morire di fame e chiudere la gente in prigione, o al manicomio. Vergogna è condannare. Vergogna è giudicare. Vergogna è comandare. Fu per questi motivi, e in questo modo che Giuditta e io, quel fatidico ventitré marzo del cinquantanove, mentre cominciavano a uscire i proclami del governo provvisorio e ad affiggersi su per le cantonate, ci congiungemmo carnalmente sull’erba del parco di Milano, alle dodici e un quarto antimeridiane.
Rivoluzione
[…] Il secondo sbaglio fu di natura filosofica: quello di credere che alla rivoluzione debbano necessariamente seguire nuove istituzioni di governo: Credere che la rivoluzione possa e debba dare luogo a un ordine nuovo, e così resistere. La rivoluzione, se vuol resistere, deve restare rivoluzione. Se diventa governo è già fallita. Se chiama i cittadini alle urne perché eleggano i loro capi, addio. Non è la prima volta che succede, nella storia del mondo, e neanche sarà l’ultima: dovunque la rivoluzione ha cessato di essere permanente, là è ritornata la tirannia. E non è neanche vero che la rivoluzione (e quella milanese del cinquantanove più delle altre) voglia dire il caos. Questo lo dicono e lo ripetono di continuo gli amanti dell’ordine, vale a dire i tiranni […]
Il terzo sbaglio fu di natura non più politica, non più filosofica, ma diciamo pure tattica. E cioè si commise un grosso errore nella scelta degli obbiettivi. Voi rammentate che cosa vollero occupare e tenere, gli insorti: il Broletto, il Palazzo del Governo, quello del Genio, le caserme intestate ai santi, il Castello, l’Università. […]
L’errore principale determinato dall’infantilismo tattico è appunto questo della cattiva scelta degli obbiettivi primari: municipi, palazzi governativi, uffici del catasto, chiese, caselli del dazio, università. Tutti obbiettivi puramente simbolici. Un rivoluzionario adulto occupa innanzitutto (qui faccio l’esempio milanese, che meglio mi calza) occupa dunque la Handelsbank, la Kreditbank, persino la Volksbank, quella che oggi sorge al posto dell’antico Palazzo del Genio.
Nel marzo del 1959 successero a Milano parecchie cose, ma non vi fu alcuna insurrezione armata di popolo. I giornali dell’epoca me ne danno conferma. Ciò vuol dire che i fatti raccontati in questo libro sono un’invenzione.
Purtroppo sì.
L’AUTORE
Da “Aprire il fuoco”, Luciano Bianciardi 1969 - Rizzoli