Ma anche Carla, o Francesco.
Il nome non è importante, un nome può rappresentare una tipologia, una categoria.
Giuseppe è l'erede, tanti anni fa una lontanissima parentela ha portato la sua famiglia a ricevere in dote un terzo della villa; prima la madre che, con l'avanzare dell'età, ha lasciato le redini delle sue vaste e numerose proprietà al figlio.
Sto parlando di quella che ho quasi sempre definito "la parte abbandonata". Un ettaro scarso di terreno, un tempo coltivato a vite e alberi da frutto, e circa cinquecento metri quadri di proprietà abitativa, in disuso anche questa da almeno quindici anni, lasciata a se stessa, incolta, piovosa e poi marcia, il tetto crollato, il tanfo di umido marcio che risale dalle porte esterne, l'immagine dello sfacelo e dello spreco.
La manutenzione degli spazi comuni, il grande parcheggio e il passaggio dietro casa, me li sono sempre caricati nel mio scadenzario settimanale dei lavori da fare: tagliare l'erba, i rovi, l'edera, la
mimosa (crollata poi nella bufera), e altre manutenzioni più o meno faticose e/o dispendiose.
Il tetto crollato di cui parlo qualche riga sopra è stato ristrutturato da poco, lavori infiniti iniziati a maggio e finiti a novembre. Dopo lo smontaggio del cantiere mi sono ritrovato in una discarica, sei vecchie reti da letto abbandonate dove capita capita, grondaie sfondate, due longherine di sei metri del peso di circa 200 chili ciascuna, una montagna di ciarpame che certo non potevo far finta di non vedere. Così in tre ore di lavoro duro accatastai il tutto con logica, in attesa del da farsi.
Sabato scorso stavo tagliando l'erba fradicia della mattina, cominciava ad essere veramente troppo alta, approfittavo della giornata finalmente serena. Sudavo molto, imbacuccato di strati di vesti varie, l'aria ghiaccia mi gelava a tratti il sudore, cominciavo ad essere stanco.
Vedo due figure con la coda dell'occhio, d'istinto do il mio buongiorno.
Nessuna risposta.
Al che intuisco che è Giuseppe, con suo figlio (un torsolone di circa sedici diciassette anni e ottantacinque novanta chili).
Mi si avvicina il genitore, sguardo severo e mi dice, così, damblé (non so come si scrive):
"Senti, te la legna da là la devi togliere..."
Si riferisce ad una catasta di rami di araucaria che la bufera di febbraio scaraventò a terra in una notte tremenda.
"Si, si, lo so..."
"Vieni che ti faccio vedere..." insiste lui.
Io lo guardo, lui non mi guarda e se lo fa non mi vede proprio. Voglio assecondarlo, non so perché, spengo la falciatrice e lo seguo. Max è con me, quell'uomo non gli piace, abbaia, va alle sue mani, io lo redarguisco.
Mi fa vedere ciò che sapevo, lui disarmato dalla mia noncuranza curiosa gira i tacchi, stiamo tornando verso la falciatrice.
"Ecco" esordisce "io a gennaio voglio tutto libero".
Ho contato fino a tre.
"Guarda, prima leva quel troiaio là, che io ti ho sistemato, sembra una discarica".
Non l'ho più considerato, avevo finito con lui.
"Andiamo" ha detto al figlio.
Ho acceso la falciatrice.
Dopo un po' ho iniziato a rimuginare sul mio comportamento, sulle mie pochissime parole espresse in quello scambio. Non mi viene quasi mai la risposta pronta, rimango un po' disarmato nelle situazioni in ci non partecipo. Così ieri a mente serena mi sono preparato un foglietto, un editto, che la prossima volta leggerò a voce alta, a lui e a suo figlio, che capiscano bene alcune cose che ritengo importanti:
- Poche regole per parlare, manuale di convivenza
- 1) Se do il buongiorno e vuoi parlare con me, ricambia.
- 2) Se non ci conosciamo, presentati. potenzialmente non conosco il tuo nome.
- 3) Prima di esigere, sii cosciente di ciò che devi (questa gli va spiegata ammodino).
- 4) Illustrami le tue richieste guardandomi negli occhi e con tono amichevole.
- 5) Prendi le mie parole come vere, comunque tu la pensi, verrà il tempo per discuterne.
- 6) Cerca un accordo, altrimenti vai dove puoi.